
Il dialetto è design, relazione… una piccola rivoluzione gentile.
C’è una voce che ti racconta prima ancora che tu dica chi sei.
Non quella interiore ma la tua voce, vera.
Quella che non hai imparato sui banchi di scuola ma tra casa, piazze, osterie, marciapiedi.
Quella che ti scappa “quando abbassi le difese”.
Quella che sa da dove vieni (non solo dove vuoi andare).
Quell'intercalare che riesce a scandire non solo il tempo ma, anche, il sentimento.
Io quella voce non l’ho mai voluta zittire.
L’ho scelta come compagna di viaggio, come bussola.
Perché per me il dialetto non è nostalgia. È identità. È design relazionale.
Perché mi ricorda da dove vengo, le mie radici… semplicemente CHI SONO.
È un logo… vocale.
Ogni parola in dialetto è un’impronta: racconta storie, radici, carattere.
È come un logo fonetico: unico, riconoscibile, autentico.
Nel mio lavoro – che unisce coaching, storytelling e identity design – questa voce è un asset, non un limite. “La voce è il tuo logo. Le parole sono il tuo payoff.”
È un ponte, non un muro.
Il dialetto avvicina. Scioglie… rende umani.
Quando parlo in romano, non sto alzando un tono: sto abbassando una barriera.
E nel coaching, nella relazione, questo vale oro.
La gente ha bisogno di qualcuno che parli il suo linguaggio, non che gliene imponga uno nuovo.
È stile… è il tono dell’anima.
Nel branding si parla tanto di tone of voice ma a me piace di più parlare di tone of soul.
Il dialetto è la mia palette emotiva: sincera, viscerale, piena di colore.
È come se ogni parola avesse già una grafica addosso. E spesso, dice più del layout.
È memoria viva.
Quante voci si somigliano là fuori?
Quante aziende, professionisti, coach parlano allo stesso modo, con lo stesso lessico incartato?
Poi arrivi tu e dici una frase vera… dialettale.
E ti ricorderanno per questo… Perché non ti sei nascosto.
E la verità si sente, prima ancora che si capisca.
È un atto sociale.
Usare il dialetto non è folklore: è inclusione linguistica.
È rifiutare l’omologazione, è dare dignità alle parole della gente.
È dire: “Ti vedo. Ti riconosco. Ti parlo come parli tu.”
E se fai coaching, se lavori con le persone, se ti occupi di comunicazione… non puoi che partire da qui.
In fondo, parlare in dialetto è un atto di design.
Non grafico… Non strategico ma umano, profondo, relazionale.
Io lo faccio ogni giorno, nei percorsi che accompagno, nei progetti che firmo, nelle storie che aiuto a raccontare.
Perché quella voce lì, quella vera… è la cosa più potente che abbiamo.
E se la sappiamo ascoltare, può diventare la nostra differenza più bella.
Se senti che anche tu vuoi comunicare con più verità, autenticità e radici, forse è il momento di tornare a casa… anche solo con una parola.